Intervista al direttore del coro Laure Gilbert
di Maria Teresa de Carolis
IL TUO AMORE PER LA MUSICA DA COSA NASCE?
Secondo me tutti gli esseri umani nascono con la musica dentro, o con la capacità di percepirla, alcuni più di altri, sopratutto se hanno la fortuna di essere spinti in quella direzione. Quindi, come tutti, sono nata musicista, e in più sono stata spinta da molto presto: i miei mi hanno fatto iniziare il flauto dolce a quattro anni, e quindi la musica mi è entrata bene nella pelle. Da più grande ho suonato un po’ il clarinetto, e poi il violino. E mi è sempre piaciuto cantare; cantavamo molto in famiglia, e appena possibile ho partecipato a un coro classico.
E poi la mia vita mi ha portata a viaggiare molto. Sono cresciuta in Svizzera, dove si dà molto spazio (e soldi) alla cultura, rispetto all’Italia. In un periodo in cui ero nella mia città, Losanna, Giovanna Marini (foto) ha dato dei concerti e un seminario. Lei, in pratica, aveva cullato la mia infanzia con i suoi canti. I miei avevano pochi dischi, ma mia madre adorava quello di “Bella Ciao”, quindi lo ascoltava spesso e io lo sapevo a
Giovanna Marini era spesso presente con i suoi spettacoli in Svizzera. Nel ‘93 è venuta a dare concerti con il suo Quartetto. Si trattava di “La vita al di sopra e al di sotto dei mille metri”. Un capolavoro. Sono andata a vederlo 4-5 volte, e ogni volta mi commuovevo. Allora ho pensato “Lì c’è qualcosa.” Il posto dove cantava, il Théâtre de Vidy, è una struttura molto valida, che ha anche tanti soldi a disposizione… hanno quindi organizzato un seminario di una settimana con Giovanna e le altre cantanti del Quartetto. Era la prima volta che incontravo da vicino questa donna eccezionale, e sono stata fulminata dal personaggio, non solo da quello che faceva, ma dal suo modo di essere: un’umanità rara, un’insegnante straordinaria, piena di umorismo e di autoironia. All’epoca aveva intorno ai 60 anni e dava corsi in Svizzera, a Parigi all’Université Paris VIII, in Belgio e a Testaccio. Aveva centinaia di allievi, di cui circa 80 solo a Parigi, che portava in giro a fare delle gite di ricerca etno-musicologica, nel sud Italia di solito e anche in Sardegna. Ci andavano i suoi allievi da tutta Europa. Si ritrovava con ottanta persone in questi paesini, durante la settimana santa, ad ascoltare i canti delle passioni. Per un periodo, sono andata a Parigi a seguire i suoi corsi, che erano straordinari: lei insegnava a ottanta persone all’università, nello stesso modo in cui insegnerebbe a quattro amici a casa; lei è sempre lei. Quando insegna ha una presenza umana, mentale, fisica e musicale eccezionale. Quindi, dopo aver seguito questi corsi a Parigi per un po’, ero a un punto della mia vita in cui potevo scegliere tra studiare cinese a Parigi o studiare musica a Roma. Ho scelto Roma. Ho seguito Giovanna Marini, anche per dare un po’ più di spazio alla musica nella mia vita, perché l’avevo sempre fatta da dilettante e volevo approfondire. Scegliendo di venire a vivere a Roma non mi rendevo ben conto di quello in cui mi avventuravo. All’epoca facevo ancora la guida turistica, lavoravo quattro mesi d’estate con dei gruppi svizzeri e il resto dell’anno studiavo a Testaccio. Quando ne avevo sentito parlare, avevo immaginato una scuola straordinaria. È una scuola molto interessante, ma di certo meno seria di quello che mi aspettavo. Io ero partita con la stessa intenzione di qualcuno che parte all’estero per studiare… Quindi all’inizio facevo sedici ore di lezione a settimana, ho fatto assolutamente tutto quello che potevo, sfruttando tutti i lati di Testaccio, dopodiché mi sono detta che era abbastanza.
Durante quel periodo ho fatto diversi viaggi con Giovanna Marini e tutta la comitiva di allievi suoi, a registrare, sentire, trascrivere, imparare i pezzi cantati da alcuni vecchietti sdentati e ostinati che per fortuna hanno mantenuto la tradizione. Quello che è accaduto, devo dire, di più affascinante e di più sorprendente, è stato un fenomeno quasi paradossale: noi, allievi di Giovanna, arrivavamo in massa, con molti scrupoli, a intrufolarci nelle processioni, ci sentivamo intrusi, quasi fuori luogo. Eravamo 80 giovani tra gli anziani, ci vestivamo di scuro per non dare troppo nell’occhio, ma eravamo vistosissimi, anche perché nessun giovane stava lì ad ascoltare questi canti per ore con tutta l’attenzione che ci mettevamo noi. A loro non gliene importava niente. Ma vedendo tutte queste persone che venivano da lontano a sentir cantare i loro vecchietti, alcuni si sono resi conto che in quei canti c’era qualcosa di interessante e hanno aperto le orecchie in modo un po’ diverso, senza pregiudizi, e alcuni hanno deciso di farseli insegnare. Così la tradizione non si è persa, in parte grazie anche alla nostra presenza. Qualche hanno fa, c’erano a Diamante (Calabria) e a Montedoro (Sicilia) dei giovani che si sono fatti insegnare i canti e hanno messo su dei piccoli ensemble.
FINITA L’AVVENTURA CON GIOVANNA MARINI HAI PENSATO DI RICREARE UN’ESPERIENZA SIMILE, UN TUO GRUPPO? LA TUA PASSIONE PER LA MUSICA POPOLARE TI HA PORTATO IN QUELLA DIREZIONE?
C’è stata una tappa intermedia: la creazione di un duo con una mia amica francese, arrivata a Testaccio nello stesso anno mio, per le stesse ragioni. Con lei abbiamo messo sù questo duo così, per il piacere di cantare insieme. Ma poi è diventata una cosa seria, molto piacevole. Non volevamo riprodurre soltanto quello che avevamo imparato con Giovanna, e abbiamo deciso di allargare ad altre tradizioni. Ed è lì che per me si è un po’ collegato tutto. Perché era un po’ difficile conciliare il mio amore per i viaggi, l’oriente, lo studio delle lingue e la musica. In realtà, il legame c’è eccome. Così, con lei siamo riuscite pian piano a mettere su dei canti anche di altre tradizioni. Successivamente, per varie circostanze, sono andata a vivere in campagna vicino a Roma e mi sono ritrovata in una sorta di deserto culturale, in un posto dove, dopo aver vissuto per anni in luoghi molto vivaci culturalmente, ho sentito un vuoto immenso. Per fortuna, ho avuto una “manager”, una mia cara amica che viveva anche lei in campagna, e sentiva la stessa mancanza di stimoli culturali, come valore unificatore e armonizzante, e mi ha incoraggiata molto. Io non pensavo di essere in grado di dirigere altre persone. Allora le ho detto: “Roberta, va bene, trovami cinque persone e io lo faccio!”, convinta che non le avrebbe mai trovate. Invece le ha trovate, e il coro è nato così. Quindi, sei anni fa, nel 2002, in cinque abbiamo iniziato a imparare a cantare, a stare insieme con un senso musicale. Non è stato semplice, perché le persone che man mano sono entrate nel coro non avevano quasi mai una preparazione musicale. Questa è una cosa molto strana in Italia: c’è tanta musica nelle persone, tanti talenti, tante voci spettacolari, ma la musica non viene quasi insegnata a scuola. In tanti paesi è obbligatoria, fa parte, diciamo, della cultura generale. E questo è molto positivo, perché permette a chiunque ne abbia voglia di fare parte di un coro, di un’orchestra, spesso amatoriale, ma di buon livello. Invece qui sono dovuta partire quasi da zero, per quanto riguarda la conoscenza della musica. E non sto parlando di note e di gergo: sono dovuta partire proprio dallo sviluppo della memoria musicale, sapere riconoscere se una nota è più alta o più bassa di un’altra. E poi, provare anche a trasmettere piano, piano la consapevolezza, la capacità di cantare insieme. Perché la musica non è soltanto imparare una melodia e saperla cantare, la musica d’insieme ha una dimensione molto più vasta, che è quasi una metafora della società. Ossia, come prendere il proprio posto all’interno di un gruppo, facendo la cosa tua, insieme agli altri, senza prendere troppo spazio, o troppo poco, avendo il livello, il volume giusto, sviluppando indipendenza vocale, per essere in grado di seguire quello che tu stesso devi fare mentre gli altri stanno facendo un’altra cosa. Quindi è un’esperienza anche molto educativa a livello umano, molto ricca; anche molto spiazzante a volte, ci possono essere dei passaggi stretti.
E così, pian piano queste cinque persone sono diventate dodici, quattordici. E’ sempre rimasto un coro aperto, nel senso che continuano a poterci entrare nuove persone, alcune ne escono, altre ne entrano. Adesso abbiamo un repertorio di circa 25 brani, che spazia fra diverse zone del mondo: Brasile, Spagna, Bulgaria, Repubblica Ceca, Russia, Inghilterra, Cina…
PENSO ALLA SCELTA DEI PEZZI E ALLA DIFFICOLTA’ DI TROVARE BRANI SEMPRE DIVERSI E PROVENIENTI DA PARTI VERAMENTE LONTANE DALLA NOSTRA CULTURA EUROPEA. COME AVVIENE LA RICERCA?
Molti mi sono stati trasmessi oralmente, da altri appassionati di canti popolari. In tanti posti d’Europa (Francia, Svizzera, Inghilterra), c’è un grande numero di persone interessate alla musica popolare. Il lavoro che svolgo io forse qui è originale, ma in Francia ci sono tanti che fanno questo tipo di operazione; non sempre in coro; possono essere ensemble più piccoli, o anche più grandi. Ce ne sono parecchi, e tramite le persone che ho conosciuto all’università, durante gli stage di Giovanna Marini, si è creata una vera e propria rete.
LEI E’ STATA A TUTTI GLI EFFETTI UN PILASTRO PERCHE’ DA LEI POI E’ PARTITO UN INTERESSE CHE SI E’ RAMIFICATO
Sì, Giovanna ha creato un tessuto di appassionati. Considera che a Parigi, Giovanna Marini fa sala piena per cinque settimane nei più grandi teatri. In Francia è riconosciuta immensamente per il suo valore, sia come ricercatrice e cantante che come compositrice. In Italia per qualche strano motivo, no. Mi è successo a Testaccio che qualcuno mi ha chiesto: “Ma tu perché sei venuta qua?” e io ho risposto: “Per seguire Giovanna Marini!”… “E chi è Giovanna Marini?” Questo all’interno della scuola di Testaccio!! C’è un’inconsapevolezza di quello che ha questo paese a livello musicale, e che questa donna eccezionale, con altri, ha salvato. E’ veramente triste: solo da quando Giovanna ha fatto un disco con De Gregori, che non rappresenta per niente l’immenso valore musicale che c’è nel Quartetto, solo da allora più persone conoscono il suo nome. È come conoscere Woody Allen solo perché ha fatto un film con Di Caprio…
IN ITALIA PURTROPPO L’ARTE HA UN VALORE MOLTO BASSO, NON E’ CONSIDERATA UN INVESTIMENTO
A livello economico sicuramente, ma non è solo quello. Secondo me, come accade in tanti paesi, la gente ha snobbato le sue tradizioni, non considerandole così interessanti. In Francia, quando Giovanna Marini presenta un canto sardo con il Quartetto, la gente rimane strabiliata, felice, entusiasta, perché non c’è pregiudizio; mentre se fosse un canto bretone, probabilmente pregiudizio ci sarebbe. L’esotismo ha la qualità di far sentire con le orecchie interiori, e non con quelle della mente. Al di là di questo, il valore che hanno i canti di alcune zone d’Italia come polifonie è importantissimo; sono canti che non si sono trasformati per quattrocento anni, che sono rimasti indenni dal ‘600 ad oggi, rifiutandosi di piegarsi a una sorta di omologazione, sono splendidi portatori di energia terrestre che non tutti i canti hanno. Anche il tipo di vocalità che si usa è molto particolare. Di cose straordinarie ce ne sono in molte parti del mondo: Bulgaria, Georgia, tutta l’area dei Balcani, la Mongolia, i canti degli Inuit, dei Pigmei… Ne ho sentite tante. Ma in Italia è difficile reperire materiale, perché ce n’è pochissimo anche nei più grandi negozi di dischi. So che a Roma c’è una buona fonoteca, ma dove è tutto un po’ complicato. In tanti altri paesi ci sono fonoteche municipali estremamente fornite, dove prestano i CD come in una biblioteca. Rende il lavoro di ricerca molto più facile. Ora comunque Internet è una fonte ricchissima e si trovano tante cose, cercando bene. Poi me le studio e le trasmetto al coro, oralmente. Di scritto do solo la trascrizione delle parole.
PERCHE’ QUESTA SCELTA?
È una scelta molto accurata, maturata attraverso vari esperimenti. In un paio di occasioni ho dato uno spartito con note scritte, che tra l’altro per tanti non significavano nulla. E ho notato che quando l’ho fatto la qualità di ascolto calava del 90%, diventava assolutamente prioritario il lato visivo, il guardare lo spartito, provare a capirlo. Come dicevo prima, il coro Zenzerei è composto per la maggior parte da persone non preparate musicalmente; sono persone che non leggono la musica e che non hanno una preparazione musicale, non è quindi possibile fare un discorso tecnico, non si può parlare di note, di scale maggiori o minori, e proprio per questo è stato un terreno molto interessante, perché ho dovuto inventarmi dei sistemi per sviluppare la memoria musicale, trasmettere canti a più voci senza note scritte. Siamo partiti quasi da zero. Piano piano nella mente si è formata la capacità di riconoscere che cosa accade musicalmente in un brano. Questo penso che sia stato l’arricchimento più grande rispetto a un coro tradizionale, perché ho spinto volontariamente all’ascolto, cosa che spesso manca nei cori di persone che già sanno cantare. E’ difficile trovare modi per affinare l’orecchio di ognuno a quello che stanno facendo gli altri. Trovo che spesso c’è una mancanza di consapevolezza dell’insieme. Lavorando da zero, ho avuto la possibilità di scolpire abbastanza precisamente quello che desideravo come tipo di trasmissione musicale, non lavorando particolarmente sulla precisione dell’intonazione, che naturalmente è fondamentale, ma non è tutto: ci sono tanti altri parametri che vengono spesso calpestati o dimenticati, a profitto di un certo tipo di perfezione tecnica, che purtroppo lascia troppo poco spazio al lavoro sull’ascolto e, diciamo così, al cuore del coro. E un lavoro di questo tipo porta anche a unire le persone a un livello più profondo, a imparare, insieme, a stare al mondo.
COME SI SVILUPPA IL LAVORO DEL CORO; COME IMPOSTI LE PROVE? C’E’ UNA PARTICOLARE ATTENZIONE AL LAVORO CORPOREO, OLTRE CHE A QUELLO VOCALE?
Noi ci vediamo una volta a settimana per un’ora e mezza e c’è sempre una preparazione accurata, almeno di venti minuti che riguarda il corpo perché per cantare non basta la testa, non bastano le melodie o le note, ma soprattutto quello che io chiamo “presa a terra”, sull’appoggio. Quindi facciamo un lavoro sul rilassamento, che può essere individuale o a più persone; talvolta facciamo dei massaggi a due, durante i vocalizzi. A volte il lavoro è proprio sull’incontro del gruppo, quando sento che c’è distanza tra le persone, si lavora sul contatto tra i vari componenti; può essere anche semplicemente un camminare con la consapevolezza dell’altro. È molto importante che le persone si incontrino, anche fisicamente. Quando sento che l’energia che cerco, per il tipo di lavoro che ho deciso di impostare, è buona allora ci riscaldiamo vocalmente, anche con esercizi più meditativi come il suono di risonanza. Si può iniziare a lavorare con la trasmissione di nuovi canti, che avviene oralmente, oppure semplicemente si canta insieme, correggendo eventualmente ciò che secondo me và migliorato. Il lavoro più importante e più delicato è quello di raffinare tutto quello che è già impostato, sia di contatto con gli altri, sia dal punto di vista vocale, permettendo di migliorare la qualità dell’esibizione.
MI SEMBRA DI CAPIRE CHE IL LAVORO PIU’ IMPORTANTE E’ QUELLO CHE PRECEDE IL CANTARE STESSO; OSSIA IL LAVORO SULLA CONSAPEVOLEZZA DELL’INSIEME, SUL FATTO DI ASCOLTARSI ED ESSERE PRESENTI
Sì penso che sia il cuore di un coro, quello di riuscire in un ambito espressivo-artistico a trovare il proprio posto, che spesso non è perfettamente equilibrato, per nessuno. L’equilibrio sta nell’entrare in contatto vocale con l’altro, rimanendo se stessi, senza urto alcuno. Non parlo solo di volumi, parlo di equilibrio di presenza. È un gioco molto bello, somiglia al Tai Chi, come a molte arti marziali, dove si cerca l’equilibrio in cui l’insieme è armonioso.
VOLEVO CHIEDERTI DI SPIEGARE MEGLIO IL LAVORO SULLA RISONANZA CUI HAI POCO FA ACCENNATO
Il suono di risonanza è un lavoro in due, uno di fronte all’altro, dove si cerca il punto di frizione tra respiro e voce; è un lavoro molto potente perché non si lavoro su delle note fisse, si fa una sirena in salita e in discesa e si cerca questo insieme perfetto. Succede in questo tipo di lavoro che la risonanza si amalgama talmente bene che ci sono dei momenti in cui non si individua più la provenienza del suono, o meglio chi delle due persone l’abbia prodotto. Nell’ideale quello che può accadere di magico in un coro in alcuni momenti è questo combinare le varie individualità nella complessità del gruppo.
E’ IMPORTANTE COME CORO AVERE UN MOMENTO PARTICOLARE PER MOSTRARE IL PROPRIO LAVORO, RAGGIUNGENDO UN CONTATTO ULTERIORE COL PUBBLICO?
Certo è importante anche semplicemente per avere un obiettivo, delle scadenze, per lavorare per un certo tipo di esibizione. Si fa un lavoro invisibile, sotterraneo per tutto l’anno, è certo che quando lo si mette in mostra c’è un immenso piacere; c’è un feed back molto importante. È anche una presa di misura della crescita, nel senso che è un riscontro, c’è una energia più alta, più emozione, ci permette di riconoscere come le gestiamo queste emozioni. Con il canto accade questa cosa molto difficile della messa a nudo; quando si canta si è nudi davanti alla gente, non si può nascondere nulla, è una espressione profonda dell’anima e quindi è molto delicata e difficile da gestire e quindi molto soddisfacente quando funziona. Un’altra cosa prodigiosa della musica è che è un’arte che si svolge nell’immediato, qui e ora; in questo la musica penso che sia l’arte più vicina al buddismo e all’impermanenza. Ci vuole contatto con se stessi e un’immediatezza assoluta.
AVETE ANCHE INCISO UN DISCO?
Sì il disco è pronto sono 18 pezzi tutti rappresentativi del nostro coro, è un bel lavoro. Attualmente stiamo lavorando a dei brani nuovi provenienti dalla Bulgaria e ad un pezzo Fiammingo.